Daniela Dessì, soprano, è una delle grandi interpreti delle eroine del Maestro. E martedì sarà a Lucca
di Paola Taddeucci (Il Tirreno)
È stata definita un soprano assoluto. Per la splendida e nobile voce, la tecnica impeccabile e uno straordinario istinto drammatico. Perché è un’artista completa, capace di spaziare dal barocco e Settecento musicale fino ai capolavori di Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi. E Puccini, delle cui opere è una delle interpreti mondiali di riferimento. Non poteva che essere Daniela Dessì a calcare il palcoscenico del teatro del Giglio, a Lucca, per uno dei concerti del “Puccini days”, il festival che fino a gennaio rende omaggio al grande compositore concittadino. La sera dell’8 dicembre il soprano sarà protagonista di un recital inedito: accompagnata dal quintetto “Archi all’opera” del teatro Carlo Felice di Genova – sua città natale – presenterà arie pucciniane da camera e d’opera nella trascrizione per violino, viola, violoncello e contrabbasso.
E’ la sua prima volta a Lucca e con il quintetto?
«Sì, una doppia prima volta. Quella con gli “Archi all’opera” è una nuova proposta che credo possa essere molto interessante per portare la musica nei teatri più piccoli e nelle scuole. E al Giglio di Lucca, finora, non ho mai cantato: ma so che è un teatro bellissimo».
In Toscana, però, è di casa.
«Sono viareggina. Ho ricevuto la cittadinanza onoraria cinque anni fa e ne sono molto orgogliosa. Con il Festival Pucciniano di Torre del Lago ho un legame strettissimo: mi piace ricordare, tra i tanti momenti, il premio Puccini nel 2001 e, più recentemente, le ultime due edizioni. Lo scorso anno Bohème con la regia di Ettore Scola e quest’estate Tosca».
Ancora più stretto è il suo legame con le opere di Puccini. Come lo definirebbe?
«Un amore molto speciale. È la mia passione. Mi piace chiamare Puccini il mio amante musicale e Verdi il mio marito».
Ci spiega meglio?
«Il mio è un percorso lungo come cantante. Ho cominciato a studiare a 15 anni, a 18 ho debuttato e mi sono cimentata nel barocco, con il Settecento di Mozart, poi l’Ottocento con Rossini, Bellini, Donizetti e naturalmente Verdi, che è stato subito un grande amore, quello per cui ho cominciato a cantare. Poi ho incontrato Puccini, che si è insediato nel posto più alto nel mio cuore accanto al grande maestro di Busseto. L’amore per entrambi dura e durerà sempre».
Con le opere di Puccini ha raggiunto primati importanti. Quali?
«Prima cantante italiana ad aver interpretato nella stessa sera i tre ruoli del Trittico (Giorgetta, Suor Angelica e Lauretta, ndr): tre capolavori, una bella sfida. Poi sono stata l’unica interprete occidentale a portare Madama Butterfly a Nagasaki, in Giappone, con una tournée del Pucciniano. Infine il mio debutto nella regia è stato proprio con Butterfly, l’anno scorso al teatro di Genova, dove ero anche in scena».
Perché il compositore lucchese è così amato?
«È uno dei più grandi autori operistici della storia. E tocca le corde del cuore. È viscerale, al di là della sua meravigliosa musica. Di ogni sua opera, peraltro, se ne potrebbero fare dieci per gli spunti musicali che offre. Moderno e innovatore, lo hanno copiato tutti: nelle canzoni pop e nei musical è costante il richiamo alle sue armonie».
Ha una preferenza tra le eroine pucciniane?
«Tosca è l’opera che ho cantato di più e ho portato in tutto il mondo. Ma amo anche Manon Lescaut, con cui debuttai al festival di Torre del Lago, Butterfly e Bohème».
I ruoli più difficili?
«Se la giocano Turandot e Suor Angelica, ma quest’ultima prevale perché è molto più forte a livello emotivo. Mentre Turandot si può risolvere con una buona tecnica, in Suor Angelica non basta essere bravi: bisogna stare attenti a non lasciarsi prendere dall’onda emotiva».
Quanti titoli ha rappresentato nella sua carriera?
«Tantissimi. Ottanta, forse novanta. E poi molti recital, anche di autori sconosciuti. Il mio è un repertorio molto vasto».
Per questo nel 2011 ha avuto il premio Belcanto Celletti con la definizione di “soprano assoluta”. E’ il premio più importante?
«Sicuramente uno dei più importanti. Sentirsi chiamare “soprano assoluto” è un bel traguardo nella carriera di un artista e lo ripaga degli anni di studio, lavoro e fatica. Ti rendi conto che ne è valsa la pena».
Di pochi giorni fa, invece, il premio Caruso in coppia con il tenore Fabio Armiliato, suo compagno nella vita e in palcoscenico. Come incide la vostra intesa sulla scena?
«Gli dà un valore aggiunto. Le affinità, le passioni e l’amore arrivano al pubblico. Mi è stato raccontato che durante una rappresentazione di Manon Lescaut, alcuni anni fa, due signore in platea commentarono: “Sembra che si amino davvero”».
Ci racconta lo storico bis di “Vissi d’arte” al Comunale di Firenze nel 2008?
«E’ stato bellissimo e ne ho un ricordo straordinario. Eseguii il bis e vedevo tutti felici, dietro le quinte, a partire dai dirigenti del teatro, noto per avere un pubblico particolarmente esigente e restio a chiedere la ripetizione di un brano. Così, una volta finita l’esecuzione, mi rivelarono che erano passati cinquantadue anni dall’ultimo bis di un’aria d’opera ed era stato concesso a Renata Tebaldi. Fu una vera sorpresa e una grande gioia, tanto più di fronte a un nome così importante della lirica. Tra l’altro nei giorni precedenti avevo avuto bronchite e tracheite, quindi non ero al massimo. Ma mi ci buttai a capofitto e in quella Tosca detti anima e cuore».
Il suo debutto?
«Nel 1978 a Genova con La serva padrona di Pergolesi. Un momento di grande emozione e di ansia. Avevo 18 anni, da tre studiavo canto, ma ero innamorata della lirica da quando ero poco più di una bambina: imitavo i cantanti tanto che a 11 anni avevo già la voce impostata. Il debutto, quindi, era un sogno che si realizzava, ma quanta tensione!».
Come sta oggi la lirica in Italia?
«Male. Nei teatri mancano soldi e programmazione».